L’Uomo e la Morte.......13.....2.....19

L’Uomo e la Morte

di Giancarlo Barbadoro

La morte rappresenta un vero e proprio tabù sociale. La morte rappresenta un elemento estraneo alla cultura consumistica, un evento che giunge inaspettatamente e scomodamente a disturbare un sistema di vita che non la contempla.

In questo modello di società, l’individuo è agganciato alla parvenza di una continuità data dai ritmi produttivi e dai miti social, in cui trova un surrogato di esistenza e di eternità personale. L’esaltazione dei valori della sfera psichica, lo condiziona ad accettare la soggettività della gratificazione della riuscita personale, del potere sugli altri e della ricchezza, giungendo a considerarle come il vero senso della vita.

Chi muore è considerato sfortunato, poiché è sottratto al suo benessere quotidiano per essere annullato o proiettato in un ignoto crudele che lo espone all’orrore e al terrore dell’ignoto.

Meglio evitare l’argomento e tuffarsi nella finzione di eternità dell’ordinario quotidiano. Il tema della morte diviene così un tabù, oggetto di racconti del terrore e del bizzarro. Ovvero, le persone normali e sane di mente non parlano della morte, ma si dedicano alle cose dei vivi per dare un senso “reale” alla propria vita.

Sebbene vengano studiati tutti i fenomeni relativi alla sfera umana, la scienza del mondo consumistico ignora il problema della morte. La curiosità dei ricercatori della società ordinaria si è spinta ai limiti dell’impossibile, ma nessun progetto di ricerca è stato mai dedicato seriamente allo studio del campo della morte.

 

Benché oggi si studino i fenomeni relativi all’evento della nascita, dai test sulla vita uterina alle dissertazioni sull’intelligenza del feto, si trascura clamorosamente di prendere in esame i fenomeni relativi al trapasso. Probabilmente questo atteggiamento è dovuto al fatto che il problema viene delegato al campo delle religioni, considerate come i soli enti competenti a operare e a indagare nel settore.

Tuttavia, la società consumistica si trova spesso di fronte ad una serie di fenomeni che si legano al problema della morte e che suggeriscono l’esistenza di una realtà inesplorata che si affianca al visibile quotidiano. Fenomeni che danno corpo a una inevitabile intuizione dell’ignoto e del mistero che ci accompagna nostro malgrado nella vita.

Esiste infatti una imponente casistica di fenomeni percettivi che si verificano in prossimità del trapasso, costituita da sensazioni extracorporee, da visioni di luoghi e di persone defunte che sono in attesa di accogliere i morenti. Non da meno è la casistica relativa alle apparizioni, nei luoghi e nelle occasioni più disparate, di defunti che sembrano voler comunicare con i viventi.

Le religioni e i Popoli naturali

Le varie religioni esistenti sul pianeta, non si avvalgono di metodologie di ricerca sulla realtà e sono sorte basandosi sull’intuitività e sulla speculazione filosofica personale dei loro fondatori. Nel tempo, le idee iniziali sono divenute dogmi e queste religioni si sono chiuse in sistemi diversi e conflittuali tra di loro, trascinando milioni di aderenti nelle loro sacche ideologiche.

Al di là dei loro modi di intendere le loro specifiche divinità, per tutte le religioni la morte appare come una porta di accesso al mistero dell’esistenza. In parte, rappresentato come l’accesso all’identità personalizzata delle loro corrispettive divinità e in parte come l’ingresso in una dimensione di armonia e benessere.

In ogni caso, la morte è mostrata come un evento che dà accesso ad una dimensione compensatrice del disagio vissuto nell’ordinarietà quotidiana e come completamento del destino umano, in relazione ai meriti di osservanza dei precetti religiosi.

I Popoli naturali sono un caso a sé. Eredi dell’evoluzione e della storia del pianeta, presenti già in ere antichissime e vitalmente protesi verso il futuro, hanno sviluppato una cultura che non è nata in seno alle religioni storiche e non ha riferimento in esse, ma si è sviluppata in un rapporto con la Natura, quale base della loro esperienza. Non solo per il riferimento alle stagioni o all’armonia con l’ambiente, ma anche per il Mistero che traspare attraverso la presenza stessa della Natura. Un mistero che non è relativo alla superstizione, ma alla percezione dell’evento mistico che dà supporto a tutta l’esistenza.

La cultura dei Popoli naturali concepisce la vita degli esseri viventi integrata con la globalità dei fenomeni dell’esistenza. La morte rappresenta un evento che fa parte di questi fenomeni e la sua manifestazione è un elemento dell’ordinarietà quotidiana, che si pone su un piano di prospettiva esperienziale riferito al Mistero mistico che permea tutta l’esistenza.

L’ipotesi dell’Aldilà

La constatazione dell’evento della morte, ha portato inevitabilmente a chiedersi che cosa possa accadere al defunto dopo il trapasso. È facile osservare nell’atto della morte lo spegnersi delle qualità psicofisiche con cui gli individui si rapportano al mondo sensibile dei viventi. La persona che ci appariva in grado di interagire con noi, ad un certo momento, dopo il trapasso, diviene un oggetto inanimato simile a com’era prima solamente nella forma. Forma che poco alla volta tende a deteriorarsi e a scomparire, disperdendosi anonimamente nella natura.

È inevitabile chiedersi di fronte a questa constatazione, se l’evento corrisponda anche allo spegnimento delle qualità coscienti e volitive dell’individuo. Ci si chiede come sia possibile che una personalità e una capacità interattiva come quella che abbiamo conosciuto fino a pochi attimi prima, possa spegnersi insieme al suo corpo. Anzi, se rapportiamo questa esperienza a noi stessi, ci possiamo chiedere con maggior forza, come possa accadere che la nostra consapevolezza possa effettivamente svanire ed essere cancellata con tanta indifferenza dalla morte.

Vediamo il nostro corpo invecchiare e possiamo accettare l’idea che il nostro fisico ad un certo punto si debiliti al punto di morire. Ma la nostra percezione interiore di consapevolezza non sembra seguire questo cammino. Anzi, mano a mano che invecchiamo ci arricchiamo sempre più di esperienza e se guardiamo nel nostro specchio interiore, non vediamo alcun segno della vecchiaia che colpisce e infiacchisce il corpo. Come possiamo immaginare che il nostro essere, consapevole di esistere e di sviluppare una sua capacità volitiva e creativa, possa a un certo punto accettare di spegnersi al pari del corpo fisico?

Sulla risposta a questa domanda i filosofi di ogni tempo si sono divisi. Alcuni – prospettando una meccanicità cieca dell’individuo e togliendo ogni possibile ipotesi di disegno formativo da parte dell’esistenza – hanno ipotizzato che l’individuo alla sua morte scompaia, come una macchina a cui sono venute a mancare le risorse vitali. Anche se questa risposta può sembrare ragionevole, non sono da meno altri filosofi che hanno ipotizzato per contro, che l’individuo non muoia sul piano del suo stato di consapevolezza e che una forma di vita possa continuare anche dopo la morte.

Del resto, esistono possibili dati che sembrerebbero confortare questa ultima considerazione. Ad esempio, si può osservare come durante la meditazione, accada che il meditante non si sente venir meno nella sua percezione personale, sebbene le funzioni vitali del cervello tendano a spegnersi, tanto da far registrare all’EEG le onde theta, manifeste in lesioni irreversibili dell’apparato cerebrale, ma al contrario egli rimane presente a se stesso e lucidamente cosciente nella sua identità.

L’idea che l’individuo possa sopravvivere alla morte, ha portato a concepire l’esistenza di un “aldilà”, una ulteriore dimensione di esistenza, in grado di accogliere il defunto e di consentirgli di continuare ad esercitare la propria capacità consapevole e volitiva.

In ogni caso, in un modo o nell’altro, l’idea di un “aldilà” appartiene al luogo comune di tutta l’umanità. È difficile stabilire se questo sia dovuto all’influenza delle religioni che si sono radicate nella cultura del pianeta da millenni, e che sponsorizzano l'”aldilà” come premio o come castigo per i loro affiliati, oppure se risponda alla naturale percezione personale di uno stato effettivo di cose da parte degli individui.

Rimane il fatto, che la maggior parte delle persone individua questa dimensione come una alternativa alla vita ordinaria, a cui si accede dopo la morte e considera possibile una esperienza di incontro occasionale con i defunti che vi dimorerebbero. Le esperienze moderne sui fenomeni che accompagnano la morte, effettuate da ricercatori come Raymond Moody e Michael Sabom, hanno consentito di razionalizzare l’esperienza del trapasso sul piano scientifico, con specifici dati di osservazione, che sembrano mostrare la prosecuzione della vita dopo la morte.

Dati riguardanti fenomeni che possono essere imputabili anche allo specifico funzionamento del cervello, che nell’esperienza estrema del trapasso potrebbe agire in forma consolatoria per il morente o produrre allucinazioni sotto l’azione dei farmaci somministrati. In ogni caso questi dati, fino a prova contraria, possono anche suggerire l’ipotesi razionale che la vita possa effettivamente proseguire oltre la morte e che addirittura possa esistere una dimensione in cui i defunti continuino ad esistere e a mantenere la loro capacità volitiva e creativa.

L’Aldilà e la scienza quantistica

La teoria dei “wormholes” o “cunicoli dei vermi” è nata nel 1935, quando i fisici Einstein e Rosen formularono il modello matematico per spiegare vari aspetti fenomenici dell’universo ancora irrisolti. Questa teoria prevedeva che nello spazio potessero esistere dei collegamenti, appunto i wormholes, in grado di unire regioni dello spazio-tempo lontane tra di loro nell’universo, se non addirittura costituire una porta di accesso su altri universi paralleli.

Quando viene fatta la descrizione di un wormhole, così come può apparire agli occhi di un osservatore, lo si rappresenta come un cerchio che dà su un cunicolo scuro, da cui si intravvede, all’altra estremità, un altro cerchio luminoso, che si apre sul paesaggio del mondo su cui si affaccia il wormhole. La similitudine con quanto è riportato dai testimoni citati da Raymond Moody nella sua ricerca nel campo delle esperienze N.D.E. (Near Death Experiences) è assolutamente sorprendente. Molti testimoni di esperienze post mortem, affermano infatti di essersi trovati, dopo il decesso, in una sorta di tunnel circolare, vorticante e nero, e di aver scorto in fondo ad esso una apertura circolare luminosa.

Il paragone con la descrizione dei wormholes e il loro possibile utilizzo è indubbiamente suggestivo. L’Aldilà potrebbe essere una regione dell’universo lontana dalla nostra nel tempo e nello spazio, e soprattutto diversa da quella a cui siamo abituati a vivere. Una zona dell’universo in cui la manifestazione della materia potrebbe risultare sostanzialmente diversa e che potrebbe trovarsi in una dimensione spazio-temporale a se stante. Un vero e proprio universo parallelo, ordinariamente irraggiungibile, a cui si accederebbe solamente attraverso la porta costituita da un wormhole.

Una dimensione che potremmo raggiungere solo dopo la morte, ovvero dopo che la dimensione cosciente non è più vincolata dal suo legame con il corpo, costituito dalla specifica materia che contraddistingue la qualità fisica della regione spazio-temporale in cui viviamo.

Del resto, la cosmologia dell’antico druidismo, affermava che l’Aldilà non era altro che una diversa regione dell’esistente sorto dopo il Big Bang. Nara e Matchka sarebbero divisi solo dalla qualità con cui si manifesta la materia, ma farebbero entrambi parte dello stesso universo ospitato dal Vuoto, da cui è sorta l’energia che ha dato vita a tutte le cose che conosciamo e che interpretiamo.

 

La morte come esperienza

I filosofi e i mistici di ogni tempo hanno da sempre sostenuto che il contatto con la dimensione della morte può portare l’individuo ad una esaustiva percezione dell’esistenza. Una percezione a mezzo della quale è possibile coglierne la vera natura e penetrare la conoscenza che essa manifesta in se stessa sul piano reale.

È l’esperienza della “Visione”, che la cultura dei Popoli naturali propone come mezzo esperienziale che consente l’accesso e la partecipazione al piano reale, altrimenti invisibile, del Mistero che permea e dà significato alla natura. Questa esperienza è anche l’elemento portante utilizzato in alcuni ordini monastici operanti in seno al cristianesimo, dove viene invocata la contingenza della morte nella vita dell’individuo per evocare il senso di fede che può attivare il rapporto con il mistero della divinità.

È pratica abituale ad esempio, di notte nei monasteri, il bussare alla porta delle celle dei monaci con l’invito a ricordare che si deve morire. Non per ricordare l’orrore che la morte suscita nel mondo ordinario. In questa esperienza monastica come in quella della Visione dei Popoli naturali, si tende a sollevare il velo delle apparenze sensoriali, per far apparire l’Invisibile a cui tutti apparteniamo e tutto appartiene, oltre il quale non c’è altra logica esperienziale se non quella della sua conoscenza.

Chi proviene dalla cultura del mondo ordinario, nell’esperienza autoscopica della morte ha modo di affrontare tutto l’arco dell’ignoranza umana: dall’attaccamento alle proprie cose e alle proprie convinzioni, al confronto con un plagio che vuole ritagliare via l’uomo dalla sua partecipazione reale alla natura dell’esistenza.

Pensare e immedesimarsi nell’esperienza della morte, significa affrontare infatti una prima fase fatta di indifferenza, di distacco, come se la cosa non dovesse riguardare chi sta introiettando il dato. Quando, insistendo, viene superata questa indifferenza, subentra un terrore irrazionale che sconvolge dalle viscere al più profondo dell’animo, dove la morte appare come un incontro con l’ignoto, di chi è strappato via da una normalità e dai suoi interessi per essere gettato in una condizione che non c’entra più nulla con i valori conosciuti e adottati, e si è in preda alla solitudine e al buio dell’incognito. In questa fase, chi sta conducendo questo esercizio di riflessione, finisce spesso per lasciar perdere e corre a tuffarsi nelle vicende del quotidiano per stordirsi con emozioni che lo facciano sentire “vivo”.

Ma il coraggioso che non retrocede dalle sue intenzioni e continua nella sua esperienza, se si lascia sommergere da questa irrefrenabile paura, avrà la sorpresa di vedere che questa poco alla volta tenderà a sbiadire, per lasciare posto a sua volta ad una percezione di serenità e di chiarezza interiore.

Non solo, si scoprirà di acquisire la percezione di una dimensione di esistenza fuori dall’ordinario quotidiano, esperienza che possiede una sua precisa qualità esperienziale, colma di una serenità che certamente poco prima non si poteva immaginare, in cui si mostrano con chiarezza le risposte a molte domande fondamentali della propria vita e attraverso cui si può dare risposta a molti problemi che assillano nel quotidiano.

Purtroppo nella società consumistica, o maggioritaria, il problema della morte non è mai stato affrontato come un punto di partenza per una qualsiasi seria analisi filosofica. La società maggioritaria si è caratterizzata come una cultura che sviluppa la sua identità al di fuori della realtà, ignorando le prospettive filosofiche implicite nell’elemento della morte, implosa e chiusa dentro i propri miti e i propri riti sociali.

Nella cultura maggioritaria l’individuo non ha la possibilità di prendere atto dell’effettiva incombenza esperienziale della morte. Non si è portati a chiedersi se ci sia un senso nel fatto di essere nati e nel fatto che si debba morire. Non si prende a riferimento l’evento della morte, per costruire una metafisica pragmatica che vada al di là della superstizione delle religioni o dell’ottusità del materialismo. Non si prende a riferimento l’evento della morte come una provocazione esperienziale con cui dare una dimensione più autentica alla propria esistenza, relativizzando i miti della società consumistica che producono sofferenza.

La cultura maggioritaria non aiuta a intravedere nell’evento della morte un messaggio di armonia e di libertà che ci possa affrancare dalla schiavitù del desiderio e delle morali, fattori che producono un inevitabile disagio esistenziale. Si potrebbe dire che nella sua architettura filosofica, la cultura della società maggioritaria non abbia mai dato importanza effettiva al fatto che gli individui devono morire. Anzi, sembra considerare la morte come un evento spiacevole, un incidente che può capitare, ma che è bene evitare…

Articolo di Giancarlo Barbadoro

Fonte: http://www.shan-newspaper.com/web/esoterismo/182-luomo-e-la-morte.html

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