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La “tigre interiore”: 9 consigli per addomesticarla

Dott. Duccio Baroni

Quando non pensiamo di essere ben visti dagli altri, la nostra mente risponde entrando in una modalità di funzionamento particolare, che potremmo definire “mente minacciata”. L’autocritica è tipica di una mente che si sente minacciata dal mondo esterno e che cerca di controllare l’unica variabile controllabile: il proprio comportamento.

Immaginate per un attimo di essere chiusi in una stanza con una tigre. La tigre è lì davanti a voi, dorme. Voi dovete raggiungere la porta dall’altra parte della stanza. Iniziate lentamente a muovervi, un passo dopo l’altro. La tigre dorme, ha gli occhi chiusi. Un altro passo, poi un altro.

Ad un tratto urtate per errore una mensola sulla parete. Un libro casca a terra. Vi voltate di scatto verso la bestia per controllare se ha gli occhi aperti. Le orecchie della tigre si spostano nella vostra direzione. Potrebbe svegliarsi e assalirvi. Gli occhi restano chiusi. Scampato pericolo. A questo punto quali sarebbero i pensieri che vi affollerebbero la mente?

Se siete come la maggioranza degli esseri umani è probabile che la vostra mente inizierebbe a dirvi: “Se vuoi salvarti la pelle devi fare più attenzione! Sei uno stupido! Che imbranato! Se la tigre si sveglia è colpa tua!” E così via…

Ebbene questo è uno dei modi che Paul Gilbert, professore alla Università di Derby (UK), utilizza per illustrare uno dei processi psicologici più pervasivi che ha luogo dentro le nostre menti: l’autocritica.

A questo punto potreste chiedervi cosa c’entrino le tigri, i professori di psicologia e l’autocritica, e per quale motivo ve ne parlo in questo articolo. Facciamo un passo indietro…

Uno dei bisogni fondamentali dell’essere umano è quello di affiliazione e attaccamento. Abbiamo bisogno di sentire che le persone per noi significative hanno un’immagine positiva di noi. Se questo non avviene, è probabile che si sperimenti un senso di vergogna, cioè immaginiamo che l’altro ci veda manchevoli, non affidabili, non degni di affetto.

A quel punto, secondo il modello sviluppato da Gilbert (2005), si attiverebbero due possibili risposte: internalizzare la vergogna e quindi comportarsi in modo sottomesso, subordinato agli altri, criticandosi per i propri errori; oppure aggredire l’altro, con la volontà di sottometterlo al fine di riparare all’umiliazione subita e ristabilire il senso di sicurezza personale.

È importante comprendere che persone diverse avranno una vulnerabilità alla vergogna differente. Non tutti siamo uguali e non tutti abbiamo alle spalle la stessa storia. Le credenze rispetto a ciò di cui vergognarsi, si formano spesso in tenera età e possono essere connesse ad episodi traumatici, ma anche al non aver ricevuto le dovute attenzioni e non aver provato un senso di vicinanza affettiva con gli altri. Se nel corso della vita ci siamo sentiti poco desiderati o poco notati dagli altri, tendiamo a creare una rappresentazione di noi stessi come non interessanti o attraenti. In questo modo, tendiamo a sviluppare l’idea che gli altri ci possono vedere così, attivando quindi l’emozione di vergogna.

Quando non pensiamo di essere ben visti dagli altri, la nostra mente risponde entrando in una modalità di funzionamento particolare, che potremmo definire “mente minacciata”. In palio non c’è solo il nostro buon nome, ma la possibilità di essere esclusi dal gruppo o di perdere la vicinanza con le persone per noi significative. Siamo fatti così, non è colpa nostra. Siamo programmati per piacere agli altri e assicurarci la loro vicinanza.

La mente, dicevamo, entra in questa modalità che ci spinge ad essere iper-attenti ai segnali sociali di approvazione e disapprovazione, facendo emergere emozioni come la vergogna, la tristezza, l’ansia e la rabbia. Può spingerci a sottometterci alle richieste degli altri al fine di ricostruire un’immagine positiva di noi nella loro mente. Può far anche emergere pensieri del tipo “Devi lavorare meglio. Devi stare più attento. Dovevi capirlo prima. Sei uno stupido. Sei un buono a nulla” e via dicendo…

A questo punto, credo, abbiate intuito il collegamento con l’episodio della tigre nella stanza. L’autocritica è tipica di una mente che si sente minacciata dal mondo esterno e che non potendo agire direttamente sulle cause che provocano la minaccia (la mente degli altri non è una tela su cui possiamo dipingere l’immagine di noi che preferiamo), cerca di controllare l’unica variabile controllabile: il nostro comportamento.

Iniziamo così a monitorare noi stessi, ad osservarci continuamente per capire come fare a dare una buona immagine di noi, e qualora l’altro non apprezzi i nostri sforzi ci incolpiamo di aver fallito. In questo modo, però, ci esponiamo involontariamente ad ulteriore vergogna. Un esempio può chiarire le idee.

Immaginate di dover parlare davanti ad una platea di persone. È possibile che questo vi generi dell’ansia, volete fare una buona impressione. Provate e riprovate il discorso, ma un attimo prima di prendere la parola, la vostra mente decide di diventare completamente bianca. Iniziate a portare l’attenzione sui volti degli astanti, sentite il cuore che accelera e vedete le mani tremare. Prendete coraggio. Iniziate il discorso, la voce trema. Non sapete nemmeno voi come, ma arrivate in fondo alla presentazione. A quel punto la vostra mente inizia a farsi delle domande su come sia andata. Che impressione avete fatto? Gli altri penseranno che siete un incapace? Lo scopo della vostra mente è capire che immagine di voi avete dato e lo stato di minaccia piano piano si attiva. Iniziate così a rimproverarvi, a dirvi che dovevate prepararvi di più, che non riuscite nemmeno a controllare la vostra voce. Insomma iniziate ad autocriticarvi.

Pensate che la prossima volta che dovrete parlare in pubblico lo farete a cuor leggero o cercherete tutti i modi di evitarlo? Sarete stimolati a tenere un buon discorso o, diversamente, il vostro scopo sarà evitare una figuraccia? Sarete guidati dalla volontà di condividere il vostro punto di vista oppure preda dell’ansia da prestazione?

La cosa interessante è che molti pensano che l’autocritica abbia degli aspetti positivi e, in effetti, delle funzioni le ha. Permette di autovalutarsi, di espiare i propri errori, di evitare sbagli futuri, di inviare agli altri segnali di sottomissione e stimolare la vicinanza. Quello di cui spesso non ci rendiamo conto, però, è che l’autocritica stimola, a sua volta, il sistema della minaccia e non ci fa evolvere, ma tutt’al più ci tiene al sicuro.

Molti studi (es. Gilbert & Irons, 2005; Gilbert & Procter, 2006) mettono in evidenza come l’autocritica peggiori la nostra qualità della vita e ci esponga alla sofferenza emotiva e alla depressione. Ecco perché studiosi come Paul Gilbert e Kristin Neff, hanno concentrato i loro sforzi alla ricerca di un antidoto all’autocritica. Ciò che è emerso dagli studi sull’autocritica, indica come la compassione per sé e per gli altri, possa rivelarsi uno strumento tra i più potenti per ridurre l’autocriticismo.

Avete mai riflettuto su quale sia il vero scopo delle persone che ci criticano? Spesso ricevere una critica non ci fa sentire sicuri o migliori, anzi ci abbatte e ci fa pensare a quanto siamo pessimi. Al contrario, vi è mai capitato di trovare qualcuno che facendovi notare un errore, vi abbia poi spiegato dove avete sbagliato e sostenuto, infondendovi fiducia e coraggio? Ecco la seconda persona è stata compassionevole con voi. Era interessata alla vostra crescita, al vostro miglioramento e si è impegnata affinché voi raggiungeste i vostri obiettivi. La compassione non è pietismo e pena, ma è rendersi conto della sofferenza degli altri (e della nostra) e impegnarsi a lenirla.

Essere compassionevoli permette alla mente di non entrare nello stato di minaccia, ma al contrario fa percepire alla persona quel senso di connessione profonda con gli altri, che calma il nostro organismo e ci apre alle nuove esperienze.

È importante sottolineare come la compassione non sia mera accettazione dello status quo, anzi. Il miglioramento di noi stessi è sempre possibile, è la strada per raggiungerlo che cambia. Quanto l’autocritica si focalizza sui nostri errori e genera rabbia e frustrazione, tanto la compassione è focalizzata sull’aumento di competenze, sulla gentilezza verso noi stessi e sull’impegno costruttivo.

La compassione è stata studiata dalla psicologia buddhista e ad oggi è entrata a far parte di alcuni modelli terapeutici. Tra questi, quello della “Terapia focalizzata sulla compassione” (Gilbert, 2005), sta mostrando di ottenere dei risultati promettenti con molti problemi psicologici (Leaviss & Uttley, 2015; Braheler et al., 2012). E tuttavia, deve essere sottolineato come la compassione sia una abilità da coltivare, di cui può beneficiare chiunque sia alle prese con una mente minacciata.

È per questo che vorrei lasciarvi con alcuni brevi consigli per sviluppare la compassione:

1) Respirare…

Può sembrare banale, ma il respiro agisce potentemente sul nostro organismo permettendoci di influenzare la nostra mente. Provate a fare tre respiri con il ritmo che più vi piace e poi inspirate contando mentalmente per tre secondi. Espirate contando fino a quattro o cinque. In questo modo avrete un’espirazione più lunga dell’inspirazione. Cercate di assaporare la sensazione di rallentamento che otterrete nel vostro corpo.

2) Piccoli passi

Provate a fare dei semplici gesti che vi regalino un senso di gentilezza e di cura verso voi stessi. Prendetevi il tempo per farvi una doccia rilassante a fine giornata, una passeggiata nel verde, regalatevi un massaggio, insomma qualunque cosa vi dia la sensazione di starvi occupando gentilmente di voi.

3) Attenzione alle parole

Ponete attenzione alle parole che usate quando vi rivolgete a voi stessi. Sono parole di biasimo? Sono insulti? Che tono usate? Vi accorgerete con che facilità si attiva in noi l’autocritica. Provate quindi a rivolgervi a voi stessi in maniera più gentile, immaginate un tono che abbia delle sfumature di calore e accoglienza.

4) Post-it mentali

Preparatevi delle frasi compassionevoli da ripetervi nei momenti di difficoltà. Quando vi accorgete che vi state criticando, ripetete mentalmente frasi del tipo: “È un momento davvero difficile. Soffrire fa parte della vita. Posso concedermi la compassione di cui in questo momento ho bisogno…”. È importante che pensiate a delle frasi che si adattino a voi, saranno la vostra ancora!

5) Cosa direste ad un amico?

Immaginate cosa direste e fareste se una persona a voi cara venisse da voi sentendosi rifiutata o vergognandosi. Provate a rivolgere le stesse parole a voi stessi e notate se cambia qualcosa.

6) Meditate… gentilmente

Stare nel momento presente, con un atteggiamento di accettazione non giudicante verso ciò che accade dentro e fuori di noi, può essere di grande aiuto. Sviluppare questa abilità permette di rendersi conto dei nostri bisogni e ci rende più consapevoli dei momenti in cui la nostra mente si sente minacciata. Come afferma Gilbert, bastano cinque minuti la mattina, prima di alzarsi, quando ancora si è sotto le coperte.

7) Permettetevi di sbagliare… e che gli altri sbaglino

Essere compassionevoli non vuol dire solo permetterci di fare errori senza giudicarci, ma ricordarci che anche gli altri hanno una mente e che spesso dopo un errore entrano in uno stato di minaccia.

8) Ricordatevi che siamo in tanti

Quando vi sentite intrappolati in una situazione e siete sopraffatti dalle emozioni di vergogna, tristezza, frustrazione, ricordate a voi stessi che in quello stesso istante ci sono milioni di persone al mondo che provano qualcosa di simile. È l’autocritica che vi fa sentire diversi e manchevoli, ma come sostenuto dal monaco buddhista Shinraku: “La sofferenza non significa che sei pessimo, dimostra che sei umano”.

9) Se qualcuno vi chiede di entrare in una stanza… controllate prima che non ci sia una tigre.

Articolo del Dott. Duccio Baroni

Riferimenti:

– Braehler, C., Gumley, A., Harper, J., Wallace, S., Norrie, J., & Gilbert, P. (2012). Exploring change processes in compassion focused therapy in psychosis: Results of a feasibility randomized controlled trial. British Journal Of Clinical Psychology, 52(2), 199-214. http://dx.doi.org/10.1111/bjc.12009
– Gilbert, P. & Petrocchi, N. (2012). La terapia focalizzata sulla compassione. Milano: F. Angeli.
– Gilbert P, Irons C (2005). Focused therapies and compassionate mind training for shame and self-attacking. In Compassion: Conceptualisations,Research and Use in Psychotherapy (ed P. Gilbert): 263-325. Routledge.
– Gilbert, P. & Procter, S. (2006). Compassionate mind training for people with high shame and self-criticism: overview and pilot study of a group therapy approach. Clinical Psychology & Psychotherapy, 13(6), 353-379. http://dx.doi.org/10.1002/cpp.507
– Leaviss, J. & Uttley, L. (2015). Psychotherapeutic benefits of compassion-focused therapy: an early systematic review. Psychological Medicine, 45(05), 927-945. http://dx.doi.org/10.1017/s0033291714002141

Fonte: http://www.ansia-sociale.it/news/la-tigre-interiore-9-consigli-per-addomesticarla/

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