Il Dolore dell’Anima: Quando la tristezza cade in fondo al cuore…

Il Dolore dell’Anima: Quando la tristezza cade in fondo al cuore…

 

La sofferenza interiore può talvolta assumere l'aspetto di un autentico Dolore dell'Anima. Esso sembra infatti pervadere le nostre emozioni allo scopo di far emergere in noi quanto di più autentico sia custodito nel nostro Sé.

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…E sdraiarsi felice sopra l’erba ad ascoltare
Un sottile dispiacere
[…]
Domandarsi perché quando cade la tristezza
In fondo al cuore
Come la neve non fa rumore
[…]
Parlar del più e del meno con un pescatore
Per ore ed ore
Per non sentir che dentro qualcosa muore

Lucio Battisti (Mogol) – Emozioni

Il dolore dell’anima a volte semplicemente si presenta così, come nei versi di questa famosa canzone di Battisti. Le cose sembrano andare bene, come di consueto. Le nostre giornate procedono con quella regolarità che dona sicurezza e spensieratezza. Poi un giorno, senza necessariamente una ragione precisa, qualcosa cambia. Ci accorgiamo dalle piccole cose che un sentimento cupo si sta facendo strada in noi.

Raccolti nei nostri pensieri, non sentiamo più la gioia di incontrare le altre persone. L’interesse per il presente e per il futuro si spegne gradualmente. Talvolta, magari guardando da una finestra, ci rendiamo conto che non stiamo guardando veramente.

Durante una passeggiata nel verde della primavera, possiamo prendere amaramente coscienza del fatto che non notiamo più nemmeno la bellezza dei fiori, il canto degli uccelli o il piacere del sole sulla pelle. I nostri pensieri, le nostre emozioni, un senso di vuoto… sono queste passeggere emozioni ad essere diventate ora la nostra più autentica compagnia.

E così il dolore dell’anima, semplicemente, cade in fondo al nostro cuore. Con delicatezza, senza far rumore. E torna a farsi strada in noi quel sentimento a cui ancora non sappiamo dare un nome. Ma riconosciamo il tocco di quella fredda mano, perchè ha accarezzato spesso le aree più sensibili delle nostre emozioni, fin dai primi ricordi dell’infanzia.

A volte è un vero e proprio malessere, un dolore interiore. A volte è solo uno stato di lieve deflessione del tono dell’umore, che tende però con facilità a seguire la sua via di minor resistenza. Tende cioè a scivolare verso aree di grigiore emozionale sempre più intenso. Se ci arrendiamo al suo invito, se consentiamo al dolore dell’anima di assumere il controllo, la tristezza può mutare facilmente in qualche forma depressiva.

“Il daimon, nel cuore, sembra contento,
perchè preferisce la malinconia alla disperazione.
C’è contatto”
(James Hillman)

La particolarità del Dolore dell’Anima

Col trascorrere dei giorni, delle settimane e dei mesi, ci rendiamo conto che sono tante le giornate in cui ci sentiamo avvolti da dense nubi. Forse troppe. Non sembra esservi traccia nemmeno di qualche raggio di quel sole interiore che in altri momenti abbiamo conosciuto. E tutto questo mentre le persone attorno a noi, tratte in inganno dalla nostra riservatezza e dalla nostra dignità, non sembrano scorgere alcuna traccia della nostra crisi. Vorremmo naturalmente poterci liberare da questo velo, visibile solo a noi, che separa la nostra vita da quella gioiosa serenità che ormai ci attende altrove. Vorremmo sentirci più leggeri, più felici, meno diversi, meno soli.

Ma oltre al quotidiano malessere si fa strada in noi anche un paradosso: qualcosa sembra inspiegabilmente opporre resistenza ad una facile soluzione. Un presagio, un’intuizione o una semplice vaga sensazione, suggerisce alla nostra coscienza che il nostro stato d’animo del momento non è il problema su cui focalizzarsi. Nel profondo del nostro cuore, anche nei momenti più bui, qualcosa ci invita a resistere. Qualcosa ci ordina di Vivere, anche se ci sentiamo morti dentro. Ma come vedremo, questo paradosso è del tutto apparente.

E’ senza dubbio opportuno chiarire che esperienze come queste non hanno a che fare con problematiche di tipo depressivo clinicamente rilevanti. Ciò che qui definiamo “dolore dell’Anima” è una condizione in cui non vi sono sintomi eccessivamente debilitanti. Le risorse dell’individuo, nonostante la seria difficoltà del momento, appaiono idonee al mantenimento di un funzionamento sociale, familiare e occupazionale dignitoso e responsabile.

Il livello di consapevolezza della persona rispetto a ciò che accade è del tutto adeguato a comprendere che la propria condizione ha molto probabilmente a che fare con un disagio di tipo esistenziale, e certamente non con una patologia. L’esito di questo processo è già presentito, o almeno in qualche modo intuito. Dovrà necessariamente essere una presa di coscienza più profonda sul senso della propria esistenza, sul proprio posto nel mondo e sulla natura della realtà che ci circonda.

Fare spazio alla solitudine

La capacità di accogliere e gestire momenti dell’Anima come quelli che stiamo qui descrivendo, ha spesso a che fare con la capacità di tollerare la solitudine. La solitudine avvicina la nostra coscienza al nostro Sé più elevato. Crea le condizioni che ci invogliano a rivolgere all’interno di noi stessi quelle attenzioni che tenderemmo altrimenti a dissipare nel mondo esterno.

Soffriamo, ma quello che stiamo cercando non sembra essere tanto il sollievo da quel momento difficile. E’ qualcosa che, dietro ad esso, sembra nascondersi. Non lo sappiamo ancora definire. Non ne abbiamo un’idea precisa. Sentiamo solo la discreta compagnia di questo dolore, il suo silenzio. E’ come se in quel momento potessimo “vedere attraverso” il nostro dolore. Come se sentissimo che la sua funzione ha uno scopo. Uno scopo che va al di là delle nostre possibilità del momento, ma che riguarda comunque noi stessi nella maniera più profonda.

Questo è un dolore che non fa rumore. Lo viviamo con dignità e con rispetto per noi stessi. Tendiamo a custodirlo nel nostro cuore perchè siamo consapevoli di non poterlo dividere con gli altri. Confidiamo che qualcuno, in qualche modo, ci possa aiutare. Ma è un dolore che richiede lo stare soli. Soli con il nostro cuore. Solo così, probabilmente, possiamo rispondere al misterioso richiamo dell’Anima: focalizzando l’attenzione di quel momento sulla vastità di un mondo interiore ancora in gran parte inesplorato. Una solitudine che colleghi la nostra mente con il nostro cuore, le nostre emozioni umane con i sentimenti più nobili, le nostre riflessioni razionali con le intuizioni più sottili.

Ed è forse nei momenti più bui, quando la notte dell’anima si fa più oscura, che iniziamo a scorgere i primi germogli di speranza e di significato. Le prime luminose gemme di una rinnovata consapevolezza riportano la primavera nel giardino del nostro cuore. Tutto inizia ad essere colorato dai primi raggi di quel sole interiore che poco per volta illuminerà tutto il nostro essere, cancellando ogni ombra. Da quel momento anche il nostro senso di solitudine inizia a diradarsi. Siamo ora più propensi a condividere la nostra esperienza. Negli occhi delle persone che incontriamo siamo ora in grado di vedere chi sta percorrendo gli stessi angusti sentieri.

E vorremmo semplicemente ringraziare la vita per averci donato la capacità di vedere ciò che era sempre stato lì, ma verso cui eravamo ciechi. Non importa quanto possa esserci costato. Le ferite dell’Anima non lasciano scorie di rancore, di orgoglio ferito, o di autocommiserazione. Quello che abbiamo descritto non è un normale processo emozionale.

Può il dolore dell’Anima avere un suo aspetto poetico?

Quando sprofondiamo nella sofferenza interiore, la nostra visione della vita si offusca. Tutto sembra tingersi di un pallido grigio, e l’interesse per il mondo esterno lentamente si ritrae. Ma chiunque sia riuscito a guardare in faccia il proprio dolore dell’anima, chiunque sia riuscendo a trascenderlo e ad aprirsi a quella luminosa consapevolezza interiore che attende alla fine del sentiero, certamente trova un contenuto di bellezza anche nell’esperienza depressiva più impegnativa.

Appare del tutto chiaro che la bellezza, o la dimensione poetica di un momento molto difficile della nostra vita, non ha nulla a che fare con l’autocommiserazione. Chiunque perseveri nell’incolpare la vita, o gli altri, o Dio o il destino per il buio in cui è precipitato, ha davvero poche possibilità di scorgerne la luminosità, nascosta sotto il pesante velo grigio.

Eppure uno sforzo, anche piccolo, in questa direzione può collocarci nella giusta direzione per imboccare la via di uscita. Assumersi la responsabilità della propria vita, delle proprie scelte, degli avvenimenti che la costellano e persino della sofferenza che non possiamo evitare, è uno straordinario primo passo, e un meraviglioso atto di coraggio.

Ad opporsi a questa consapevolezza è spesso il nostro orgoglio. Palesemente o silenziosamente, tenta infatti di scaricare sull’ambiente a noi circostante la responsabilità della difficile situazione che stiamo vivendo. Una citazione già riportata in altri articoli, di autore anonimo e che amo molto, afferma che

diventare adulti comporta la perdita del privilegio di incolpare gli altri per quello che ci accade

E’ la sintesi più completa dell’esatto concetto che intendiamo qui trasmettere. E una volta acquisita questa consapevolezza, inizia ad incrinarsi il guscio che separa la nostra anima da quella luminosa consapevolezza per la quale, dal suo punto di vista, nessun prezzo è mai eccessivo.

Alcuni tra gli autori più importanti sembrano comunque trovare nella depressione una dimensione non solo evolutiva, ma anche di poetica bellezza. James Hillman espone con chiarezza questo aspetto, invitando il lettore a fare tesoro dei momenti difficili della vita:

“La depressione è ancora il Grande Nemico […]. Eppure, attraverso la depressione noi entriamo nel profondo e nel profondo troviamo l’anima. La depressione è essenziale al senso tragico della vita. Essa inumidisce l’anima arida e asciuga quella troppo umida. Dà rifugio, confini, centro, gravità, peso, e un senso di umile impotenza. Fa ricordare la morte. La vera rivoluzione (a favore dell’anima) comincia nell’individuo che sa essere fedele alla propria depressione” (J Hillman, Re-visioning Psychology, 1975, p. 98).

Persino Carl G.Jung sembra incitare all’ascolto attento, umile e coraggioso della voce della sofferenza interiore:

“La depressione è una signora vestita di nero che bisogna far sedere alla propria tavola ed ascoltare”.

E’ piuttosto difficile condividere queste parole quando siamo nel cuore della notte dell’anima. Ma solo a noi spetta il compito di cercare i primi raggi del sole del mattino. Anche quando davvero non sembra esservi alcuna traccia. Per chi sa accogliere e valorizzare la musica dell’anima, anche quando le sue note sembrano fare male al nostro cuore, il premio sarà davvero grande.

Anche Aldo Carotenuto, con il suo stile elegante e delicato, dedica al dolore dell’anima queste preziose parole:

E questo un breve ma preziosissimo momento, in cui una flebile luce rischiara per qualche istante il buio in cui si è immersi. Sono attimi da prendere al volo, in cui si deve decidere rapidamente se distendersi su quel fondale attendendo la morte dell’anima o, viceversa, se trasformare quello stesso fondale in una piattaforma di lancio da cui ripartire ed emergere.

Soltanto chi avrà vissuto sulla propria pelle l’avventura spaventosa e affascinante di un viaggio nei sotterranei della propria anima potrà capire questo discorso, tutti gli altri dovranno accontentarsi di assistere increduli alle evoluzioni della psiche altrui.

Un aspetto veramente interessante della depressione è dato dallo sfacciato contrasto tra la sterilità di giorni trascorsi come creature prigioniere della propria vita, e la grande fertilità del momento in cui si decide di ricominciare a vivere.

In quel momento, infatti, l’individuo porta sulle proprie spalle un pesante carico: si tratta di tutte le esperienze psicologiche e delle riflessioni generate dalla depressione stessa. Che non sono una zavorra, ma un prezioso bagaglio che l’individuo potrà decidere di mettere a frutto.

Da una depressione non si emerge mai come si era prima di sprofondarvi, la depressione è soprattutto metamorfosi e, spesso, arricchimento interiore. La sofferenza dell’anima e la depressione, che di essa costituisce uno dei più “illustri” rappresentanti, divengono spesso scintille da cui divampa un vero incendio creativo, o la volontà di occuparsi di rinnovati interessi.

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“…il dolore non è fine a se stesso, ma un mezzo per produrre certi effetti, per insegnare certe lezioni. Quando esso ha assolto queste funzioni, possiamo e dobbiamo dirgli “grazie” e poi lasciarlo indietro risolutamente”
(Roberto Assagioli)

Ma alla fine, cosa stiamo davvero cercando?

E arriviamo qui alla domanda più impegnativa di tutte. Tutti concordano ormai sul fatto che la depressione, e la sofferenza in generale, possono condurci ad un grado di consapevolezza maggiore. Possono aprire in noi le porte del cuore e accompagnarci verso dimensioni dell’esistenza rispetto alle quali eravamo in precedenza del tutto inconsapevoli. Si, ma a quale scopo? Possiamo anche fermarci qui, affermando che in questo modo la vita assume una ricchezza e una pienezza per le quali pagheremmo ancora volentieri il prezzo del dolore che abbiamo vissuto.

Questa è una meta davvero straordinaria, la prima che dobbiamo impegnarci a raggiungere con ogni fibra del nostro essere. Ma in noi potrebbe farsi strada anche un ulteriore interrogativo. Potremmo addirittura non essere ancora pienamente soddisfatti di questo già di per se meraviglioso traguardo. Il dolore ci ha resi quello che siamo.

Abbiamo acquisito saggezza, consapevolezza e amore per la vita. Possiamo addirittura essere un esempio per chi stia cercando una via d’uscita a ciò che deve ancora affrontare. Ma anche da questa posizione potremmo ancora percepire quella  inquietudine che ci spinge ad indagare su un senso ancora più profondo delle cose. E il passo successivo è dunque quello della ricerca del fine autentico della vita. L’inquietudine, se è un genuino contatto con il nostro Sé più elevato e trascendente, non si arresterà fino alla scoperta del nostro più grande “perché”.

 

 



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